creativi e autoproduzione
di Marcello Napoli –
I MIEI GENITORI NON HANNO FIGLI
“I miei genitori non hanno figli”, edito da Einaudi, è il titolo provocatorio, del romanzo, appena arrivato nelle librerie, di Marco Marsullo. Andrebbe letto, per gustarlo in tutte le sue sfumature, con il passepartout dell’ironia; una scrittura come un invito a vivere, reagire, essere consapevoli del proprio Io e ruolo, e, d’altro canto, a non morire. “Bisogna saper ridere dei compagni bislacchi della madre, della sua mania per WhatsApp e per i corsi di meditazione trascendentale; sorridere, per non essere sopraffatti, dalla solitudine invasiva, opprimente del padre che riesce solo a comunicare con i suoi cani da caccia, ma non con gli esseri umani, figlio compreso“; è questo uno dei messaggi forti, ma delineati con leggerezza dal romanzo di Marsullo. Protagonisti un figlio diciottenne, una madre, un padre, prototipi, o archetipi, come direbbe Jung, di tutti i figli di separati. L’atmosfera che regna in queste famiglie è la solitudine, l’incomprensione causata, spesso, dal non sapersi ascoltare, dal non mettersi in gioco. E’ come se un colpo di spugna ansiogeno e schizofrenico di questa società dello spettacolo, della superficialità, delle insulsaggini mielose e patinate, avesse cancellato il contenzioso, la dialettica, il dialogo. “C’è qualcosa di autobiografico nel raccontare di genitori un po’ incostanti che si trasformano nei figli dei loro figli è l’osservazione di una condizione familiare piuttosto diffusa, di genitori separati e di figli “senza famiglia” cresciuti con pochi punti di riferimento”; ecco un’altra coordinata del viaggio in questa dinamica familiare ormai e purtroppo molto comune, indicata dall’autore. E’ un romanzo sull’incomunicabilità che serpeggia in questa generazione di famiglie, dove ognuno ha le sue colpe e, nessuno, si salva da solo. Semmai sopravvive da solo. Il figlio che diventa genitore; un cambiamento epocale e non raro, oggi, più di ieri. La riflessione che avvolge tutte le pagine del romanzo è legata al deficit emotivo causato da questi genitori; il ragazzo, studente, non convinto, di Giurisprudenza, con vocazione al giornalismo, all’affabulazione, diventa lui genitore, spugna, interlocutore. “Fare il genitore, si dice, è un mestiere difficile, ma essere figlio non è una passeggiata”; questa la considerazione l’incipit, il sentiero narrativo, di Marco Marsullo, in questa prova di scavo della psicologia relazionale e familiare, ma ironico e segno di una scrittura matura. Marco Marsullo, napoletano, classe 1985 ha una condivisibile passione per i viaggi, per i cantautori, citati nel romanzo, ovvero Vecchioni e De Gregori e non solo. Qualche vezzo? Magalli, Mourinho, (Radio) Maria? Tutte casuali queste emme? “Per uno che si chiama Marco Marsullo direi che la lettera M è nel suo destino, dalla nascita”, ci risponde con un sorriso accattivante. Cristo si è fermato ad Eboli, Dio a Buenos Aires; il diario, il tuo libro precedente, è l’esperienza di un viaggio che ha lasciato un segno? “Dio ha fatto bene a fermarsi a Buenos Aires, mi ci sarei fermato anche io un altro po’ volentieri. Il libro scritto con l’amico Paolo Piccirillo, è stata una importante prova per la mia scrittura. E’ una città dove sono sicuro di tornare; la porto nel cuore e con lei la musica e i testi di scrittori che ormai sono compagni costanti nelle mie giornate. Il Sudamerica è diametralmente opposto all’Europa”; e non è solo per una questione di meridiani e paralleli.